Critica

Armando Ginesi

Ho letto il volumetto Decadi dell’Ovest di Michele Omiccioli edito nel 2004 e poi le composizione poetiche più recenti intitolate Minima Epica. Mi è venuto in mente subito lo schema freudiano dell’apparato mentale ed in esso quell’inconscio (che unito al preconscio forma il subconscio) dove fluttua un magma vulcanico di emozioni, sensazioni, pensieri, ricordi, sogni, cose reali e cose immaginabili, possibili ed impossibili, dove mi pare che l’autore – sopratutto nella produzione degli inizi degli anni 2000 – sia andato con l’amo alla ricerca di “cose da tirar su”, verso la coscienza di veglia normale, dal mondo senza fine dei suggerimenti dello spirito per consegnarle alla ragione, senza però che muoia quella intuizione secondo la quale nulla è impossibile al profeta che è come dire che nulla è impossibile al poeta, mago di quel che è e di quello che non è, manipolatore sia del tutto che del niente, fabbricatore e demolitore al tempo stesso del reale.

I componimenti più recenti è come se si fossero allontanati un po’ dalla temperatura del caos magmatico per solidificarsi in parte al contatto con strati meno incandescenti della superficie. E la ragione è come se pretendesse di farsi strada tra il navigare in simbiosi del tutto e del niente per dare un senso di maggiore accessibilità ai versi, tutti ben costruiti e musicali, anche se trascritti al di fuori del pentagramma.

Omiccioli è pure pittore e disegnatore il quale, pur in queste altre dimensioni linguistiche, rifugge dagli spazi vuoti quasi prigioniero di un sentimento di horror vacui che lo induce a fagocitare tutto ciò che ha sapore di assenza di volume.

Infine gli aforisimi che attengono alla pittura (ma io direi meglio all’arte in ogni forma espressiva), nei quali severità e ironia sono saldate in un imenéo dove la connessione punta ad essere indissolubile. Tanto per l’autore quanto per i lettori.

 

Mauro Mazziero

La morte dell’arte e il suo lungo funerale hanno segnato la cultura del Novecento. Il vento delle guerre mondiali ha coperto l’Europa con un nero sudario e una pietra ha sigillato il tutto.

Michele Omiccioli decide di aprire questa tomba per scrutare in silenzio il lento e inesorabile mutamento di quelle che furono le belle e armoniche forme del passato.

Ecco dunque una meticolosa ricognizione di queste spoglie, scheletri ed ossa di esseri umani e fantastici che un tempo popolavano le grandi tele e gli affreschi degli antichi maestri.

Questi miseri resti sbriciolati sono stati i santi di Piero, i profeti di Michelangelo, le donne sublimi di Raffaello e Leonardo, i popolani di Caravaggio, i re e le regine di Velasquez, le bagnanti di Ingres, gli avventori del bar di Manet, i soldati di Fattori, le dame e i signori di Boldini, i popolani di Mancini. Omiccioli porta alla luce candide forme e reperti di un tempo glorioso in cui l’arte segnava i confini del bello, li descrive nelle sue carte come un solerte e meticoloso archeologo e mostra ciò che resta di quell’antico splendore. Né brutto nè bello, solo un dettagliato inventario di pezzi e di strutture la cui primigenia funzione è andata perduta, corpi senza nome. Una lista spietata di silenzi che non lascia scampo. In questo suo lavoro di ricerca non concede spazio ai sentimenti, perferisce la luce fredda dello studioso che analizza ciò che ha davanti.

Nello spazio della tela e nelle carte dell’artista c’è una dichiarazione ben precisa: la vita è ora, nei nostri corpi vivi e nella natura, la bellezza è la vita stessa e ciò che è passato ha già dato il suo frutto.

 

Gilberto Grilli

Un essere umano può vincere le proprie paure e la propria resistenza al vivere quotidiano, semplicemente visualizzando su un supporto – qualsiasi esso sia – la propria disperazione, la propria gioia, il proprio disappunto e il proprio consenso a tuto ciò che accade attorno a lui. L’equilibrio compositivo delle opere di Omiccioli è istintivo. Egli non usa fare nessuno studio preparatorio, parte da un angolo della tela o della tavola e procede, spesso senza neanche avere una visione d’insieme di ciò che sta dipingendo o disegnando; questo elemento di pura istintività lega indissolubilmente l’interiorità dell’uomo all’espressione artistica, creando un filo diretto tra il suo cervello e la sua mano.

In fondo tutti abbiamo idee creative; ma è quando passano dalla nostra mente alla mano che possono perdere energie ed ordine d’espressività. Questo non accade a Omiccioli, che riesce a dare la perfetta forma ed espressione dei suoi pensieri, siano essi di stampo positivo o negativo.

 

 

Concordo con i più che può essere un limite proporre solo “cose” che mi piacciono, lo Studio Bibliografico dovrebbero vendere a briglia sciolta per avere un futuro, ma sarebbe un futuro a cui non aspiro. Mi sono licenziato da un posto sicuro perché facevo un lavoro che non mi piaceva, non vorrei, adesso che ho trovato il mio habitat naturale, entrale in un circolo vizioso dove la legge mercantile la fa da padrone. Quindi, presento solo opere che secondo me hanno qualcosa da “dire”. Gli ultimi lavori di Michele Omiccioli mi piacciono proprio, vivono due vite quella sulla tela e quella dietro la tela. Segni allo stesso tempo duri e morbidi, la morbidezza del gesto e la durezza visiva. Michele non fa sconti, segue uno suo progetto e se vuoi catalogarlo con più enfasi un suo sogno, non gli importa di “piacere”, ma è interessato a catturare tutte quelle persone che guardano al di fuori di una tela, che considerano il quadro come pagine di un libro, dove il lettore immagina e scrive una propria sceneggiatura. Segni arcaici di una attualità impressionante, lettere di un alfabeto sconosciuto, inchiostro frantumato che cade come pioggia battente. Tele bianche che all’improvviso prendono forma e parlano al futuro, persone solo testa, uomini pensanti questi gli ultimi lavori di Omiccioli.

Lorenzo e Fabrizio Mugnaini

 

‘Ritratto di G.G.’, acrilico e pennarello su tela, 40 x 60 cm., 2017

 

 

Alfabeto e DNA            

Gilberto Grilli

 

Mesi fa conobbi un pittore che abita non lontano da casa mia. Spesso si è vicini a qualcuno o qualcosa, e non la si vede tanto è difficile comunicare anche con i vicini di casa.

In contrapposizione a questa mia riflessione, Michele Omiccioli – questo il nome del giovane artista – comunica continuamente con il mondo esterno e la società attraverso i suoi alfabeti personali, che scaturiscono dal suo codice genetico, e gridano il desiderio e la volontà di farsi capire, di fare conoscere la propria interiorità.

Come in un alveare, come le api creano le cellette per il loro magico prodotto, così Michele crea su carta o su tela le griglie che ospiteranno i suoi alfabeti e poi li scrive, li disegna, li stilizza; e noi spettatori siamo assaliti dalla estenuante curiosità di scoprire cosa c’è scritto, cosa significano quei piccoli segni – o disegni – tanto criptici quanto affascinanti.

Spesso mi viene il desiderio di assistere alla creazione della sua misteriosa scrittura, ma poi non ho mai osato chiederlo, in quanto penso che proprio la solitudine ed il confronto con se stesso, possa produrre questo genere di ideogrammi, tutti interiori, e capaci di esorcizzare i demoni sociali ed antropologici della personalità di Michele.

Qualche volta la mia mente fantastica e vede i suoi alfabeti come il tentativo di popolazioni extra-terrestri di comunicare con noi attraverso la mano ed i segni di questo giovane artista; poi rientro nella realtà, e mi rendo conto che gli extra-terrestri siamo noi, che abbiamo bisogno di comunicare, e dobbiamo avvicinarci all’arte di Michele con curiosità, ma soprattutto senza fretta. Le sue carte, le sue tele non amano farsi leggere velocemente e superficialmente, al contrario del consumismo e delle tecnologie di oggi, che ci sfiancano e distruggono la vita.


  

Visioni vertiginose

Silvia Cuppini

Michele Omiccioli e Paolo Sorrentino condividono la stessa passione, il primo per il Dottor Louis Ferdinand Destouches e l’altro per lo scrittore Celine, apparentemente due persone distinte, in realtà la stessa persona, che, nel tempo, ha preferito identificarsi con il nome della nonna materna. Il primo gli ha dedicato Decadi dell’ovest, un prezioso libro di poesie pubblicato nel 2005 con una presentazione di Katia Migliori, il secondo ha introdotto il suo film La grande bellezza con la seguente citazione tratta da Viaggio al termine della notte: «Viaggiare è molto utile, fa lavorare l’immaginazione, il resto è solo delusioni e pene. Il nostro viaggio è interamente immaginario, è là la sua forza». E proprio il viaggio – un viaggio che “fa lavorare l’immaginazione” – costituisce una chiave di lettura della complessa opera letteraria e di quella figurativa di Omiccioli, due momenti di scambio creativo: dalla forza poetica delle parole nascono immagini e le immagini si accompagnano sempre ai titoli che, a volte, sembrano imitazioni di quelli delle poesie : “Cosa lascio a terra”(Immagine) / Primo testamento(Poesia); ”Nella bufera dell’avvenire non c’è il sole”(I) / Quando il colore(P); “Paesaggio rinfrancato”(I) / Allegria di contribuenti(P); “Illuminare gli angoli”(I) / I semafori(P).

Un viaggio si compie attraversando luoghi diversi in tempi diversi: i disegni a penna, le architetture, le opere surreali, le elaborazioni digitali mostrano volta a volta spazi inaspettati che rimandano alle esperienze della virtualità in 3D di film di fantascienza o di eroi di fumetti. Una cultura che nasce dai media e dalla comunicazione di massa che nel secolo scorso ha dato luogo alla Pop Arte americana e che oggi è diventata un’esperienza quotidiana che orienta le nostre scelte, rassicurati sempre dalla banalità, da ciò che facilmente si comunica e si consuma. In questa tendenza culturale si creano comunque, perché sono sentite necessarie, delle nicchie, dei rifugi dove ciascuno, ma soprattutto gli artisti avvertono protetta la loro individualità. Per Omiccioli la sua difesa è la vertigine in cui cade la parola «non ti accorgerai / di quanto poco / si discosti / questo tutto, / dalla scelta / di uno scaffale / con la vista / su lettiera / da bimba» (da l’amore ai tempi dell’ikea), e la vertigine in cui cade l’immagine dentro Le matrici. Queste ultime, eredi dell’optical, creano abissi di geometrie bianconere dentro cui lo sguardo continua a cercare un centro, ma, come le cattive madri, disorientate, spostate sempre su altro, il centro cambia continuamente obiettivo e non lo troviamo e non ci troviamo.

I colossei il Guggenheim Museum si appendono verticali alle pareti perché da spazi aperti si sono trasformati in quadri, hanno perduto la terza dimensione, sono spazi dove il sogno si rapprende come nei disegni a penna dove i ritratti sono caricati, dove i paesaggi si aprono in anatomie di nervi e fasci muscolari che possono trasformarsi continuamente sotto l’effetto di un movimento del cervello.

Nella vertigine anche i tempi della vita e della morte si mescolano, il passato più remoto, quello delle origini, convive con il presente, i pittori traggono dalla scienza i loro segni, i biologi abbattono antiche certezze e Omiccioli registra con il suo lavoro l’eterna contraddizione del vivere.